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Sistema di monitoraggio batterie (prima parte)

Il controllo e la manutenzione delle batterie usate nei nostri impianti energetici è essenziale in una prospettiva di risparmio economico e di rispetto ambientale. Questa condizione è ancora più attuale adesso, in un momento in cui i sistemi alternativi di generazione d’energia sono disponibili per il piccolo e medio utente.

Energia da fonti alternative nelle case private

L’uso di fonti energetiche rinnovabili (costituite principalmente da vento e sole) è ormai arrivato alla portata del comune cittadino. Solo 20 anni addietro tale prerogativa sarebbe stata impensabile! Sebbene, come spesso accade, si poteva benissimo intuire che questo aspetto avrebbe costituito una delle tendenze principali del mercato energetico negli anni a venire. La tecnologia e gli incentivi statali sono stati gli elementi trainanti di questo processo che – è mia opinione – non sarebbe avvenuto se solo uno dei due fosse venuto meno. Premetto: lo scopo di queste pagine non è quello di analizzare un impianto elettrico casalingo che usa generatori locali a fonte rinnovabile. Tuttavia, per andare avanti nel nostro discorso, sarà opportuno fornire una visione d’insieme. Osservando la figura 1, possiamo trovare gli elementi principali e le connessioni di un impianto standard.

impianto domestico - serie di batterie
Figura 1: Impianto domestico semplificato con generatori a fonte rinnovabile

Sempre osservando la figura 1, si può notare come i vettori che rappresentano le connessioni dell’impianto siano di 2 colori: rosso e verde.  Il colore rosso, in particolare,  indica che il flusso di energia elettrica destinato ai vari consumi (utenze, ricarica batterie, ecc.) è fornito dal gestore. Naturalmente il colore verde indicherà  l’energia prodotta o fornita, dal nostro sistema, al gestore stesso. Infatti, sebbene non sia ancora del tutto noto ai non “addetti ai lavori”, è possibile, con particolari contratti, rivendere energia all’ente fornitore ed usufruire in tal modo di sensibili sgravi sui consumi ordinari. Tale prerogativa, è evidente, può concretizzarsi solo se nella nostra abitazione possiamo disporre di opportuni generatori attivi. Nella nostra schematizzazione, questi elementi sono costituiti da una turbina eolica ed un pannello solare. Di solito questi due dispositivi non sono entrambi presenti ma, nella nostra esemplificazione, abbiamo deciso di soprassedere a questa limitazione. Il “cuore” di tutto il complesso è costituito da un convertitore DC/AC e questo per due motivi:

  • Le varie utenze possono essere alimentate solo con corrente a 220 VAC 50 Hz
  • L’energia rivenduta al gestore deve necessariamente essere dello stesso tipo di quella fornita, ovvero 220 VAC.

A fronte di ciò occorre considerare che sia il pannello fotovoltaico e (sebbene in misura minore)  il generatore eolico forniscono energia elettrica avente parametri tali da non poter essere immessa direttamente nell’impianto. A queste limitazioni, essenzialmente tecnologiche, si affiancano altre ragioni che derivano essenzialmente dalla… Natura! Infatti, il sole può esserci al massimo per 8-10 ore ed il vento, se proprio non abitiamo in zone particolarmente favorevoli, anche meno. Ne consegue una forte discontinuità nella generazione dell’ energia rinnovabile. A questo problema dobbiamo affiancarne un altro: le cadute di energia della rete elettrica esterna. Questo aspetto diventa particolarmente gravoso se abbiamo allacciati alla rete macchinari (pompe, frigoriferi, ecc.) o elettromedicali che devono comunque funzionare sempre, in ogni circostanza. Occorre quindi immagazzinare energia elettrica nei momenti migliori per poi disporne quando sarà necessario.

La batteria, questa sconosciuta

Da circa 250 anni, il sistema per immagazzinare energia elettrica più comune ha un nome: batteria. Intendiamoci, non è il solo. E’ soltanto il più usato ed il più economico, tutto qui. Il titolo di questo paragrafo, forse un pochino esagerato, è invece indicativo di una certa situazione informativa che circonda questo importante componente. In effetti, nella mia modesta carriera di elettronica dilettante (ormai quasi ventennale…), posso affermare che non vi sono altri componenti che, come le batterie, subiscono leggende e falsi miti. Dipenderà dal fatto che tutti noi, volenti o nolenti, elettronici o meno, siamo “consumatori” di batterie? Non lo so ma, di fatto, è così. Visto che il dispositivo presentato in questo articolo ha lo scopo di misurare la performance per l’appunto delle batterie, sarà opportuno chiarire alcuni aspetti tecnico-pratici di questo insostituibile elemento.

Intanto cominciamo con il dire che ne esistono tipi diversi, con prerogative spesso alquanto dissimili. Noi concentreremo il discorso su un solo tipo ma, per capire meglio il tutto, sarà necessaria una breve introduzione di carattere generale. Occorre fare una precisazione: le batterie comunemente definite si dividono in due categorie: ricaricabili (anche definite come accumulatori) e non ricaricabili (definite anche con il vocabolo improprio di “pile”). Alla base del funzionamento di entrambe vi è un processo chimico di ossidazione-riduzione che, nel caso degli accumulatori è reversibile.

Nel caso delle pile ordinarie, il processo chimico, una volta esaurito, causa inevitabilmente la morte della pila stessa che, ahimé, da questo momento in poi sarà solo da eliminare (con un tangibile insulto ambientale poiché spesso contiene metalli pesanti). Adesso stringiamo ulteriormente il nostro campo d’indagine e cominciamo con l’occuparci soltanto delle batterie ricaricabili, ovvero degli accumulatori. Questi ultimi sono sempre costituiti da 3 elementi, non importa quale ne sia la tecnologia costruttiva:

  • Un elettrodo positivo, detto anche catodo, che chimicamente ha il ruolo di ossidante.
  • Un elettrodo negativo, detto anche anodo, che svolge la funzione riducente.
  • Un elemento elettrolitico frapposto fra i due elettrodi. Questi può essere solido o liquido e deve avere la prerogativa di condurre ioni e cariche elettriche fra i due elettrodi. Generalmente si tratta di una sostanza alcalina o acida.
accumulatore in scarica
Figura 2: Chimica dell’accumulatore in fase di scarica

In figura 2 troviamo schematizzato il processo elettro-chimico che è alla base del funzionamento degli accumulatori durante la fase di scarica. Ovvero quando l’energia chimica è trasformata in un flusso continuo di elettroni che noi , per semplicità, chiamiamo corrente elettrica.

Una volta terminato il processo di ossidazione-riduzione l’accumulatore potrà essere ricaricato da un generatore esterno. In questo caso il processo si invertirà ed, insieme ad esso, il flusso della corrente. Anche la funzionalità degli elettrodi è scambiata, in particolare l’elettrodo positivo (catodo) si comporta adesso come chimicamente riducente (vedi figura 3).

accumulatore in ricarica
Figura 3: Chimica dell’accumulatore nella fase di ricarica

Un processo completo di scarica seguito da una ricarica totale è definito comunemente “ciclo”. Naturalmente, come tutte le cose di questo mondo, il numero dei cicli possibili di un accumulatore non è infinito e dipende da alcuni fattori e dalla tipologia della batteria. Alcune tecnologie, con aggravi di costi e peso complessivo, permettono di estendere il numero dei cicli e, questo tipo di batterie, vengono definite per l’appunto “ad uso ciclico”. Tanto per avere un’idea di ciò di cui stiamo parlando, una normale batteria d’avviamento per autoveicolo civile, al momento dell’uscita dalla fabbrica, ha un numero di cicli limitato da 3 a 6 (a seconda della marca e del costo). Dall’altro opposto possono collocarsi le batterie per i telefoni cellulari che, com’è noto, possono essere sottoposte a cicli di carica-scarica in numero decisamente maggiore (anche 350 volte). Ne consegue che le normali batterie per uso automobilistico non possono essere scaricate completamente se non in casi eccezionali. Questo tipo di batterie è anche definito “di spunto” in quanto devono fornire, per pochi secondi, elevate correnti (avviamento motore) e poi, durante il funzionamento normale, operare quasi sempre in fase di ricarica controllata. Anche le comuni batterie previste per gli impianti d’allarme non possono sopportare troppi cicli di carica-scarica. In questo caso, dato che non sono mai richieste elevate correnti, si parlerà di batterie ad uso “tampone”. La parola stessa ne definisce il ruolo: sopperire per brevi periodi alla mancanza di energia elettrica, insomma “tamponare” la situazione! Queste nozioni, essenzialmente pratiche, possono introdurci a considerare gli accumulatori di corrente elettrica secondo la loro tecnologia e caratteristiche elettriche. Cominciamo da queste ultime.

Parametri elettrici principali di un accumulatore

Intanto occorre fare una precisazione che la maggior parte dei lettori troverà forse superflua (se non addirittura irritante…): la maggior parte delle batterie che usiamo sono una serie di singoli elementi (in inglese “cell”). Questo perché, solitamente, ogni elemento ha una tensione ai capi insufficiente per la maggior parte delle applicazioni. Così torna comodo disporre di una serie che ha il vantaggio di offrire, per ogni elemento, la stessa corrente di carica e scarica. A volte la serie è integrata in un unico contenitore (è il caso delle batterie per autoveicoli, cellulari, ecc.) mentre altre volte siamo noi a comporla inserendo più elementi sciolti che poi saranno posti in serie a mezzo di collegamenti presenti nel dispositivo (è il caso del telecomando, della torcia elettrica, ecc.). Più raro il collegamento in parallelo poiché leggere differenze della tensione dei singoli elementi porterebbero a dissipare energia elettrica a vuoto. Il primo dato che ci viene naturale valutare quando parliamo di batterie è la loro tensione. Tuttavia esprimere un valore in assoluto non è esaustivo per il nostro grado di approfondimento ed è quindi necessario dettagliare.

Distingueremo quindi fra:

  • Tensione di targa: il valore di tensione stampigliato sull’involucro della batteria/elemento.
  • Tensione nominale: il valore teorico del singolo elemento moltiplicato per il numero costituente la serie (varia secondo la tecnologia costruttiva usata). In caso di singoli elementi il valore è relativo all’elemento stesso (alla temperatura di 20 gradi).
  • Tensione a vuoto: detta anche tensione senza carico (open-circuit voltage in inglese). E’ la tensione a batteria efficiente senza alcun carico applicato e, di norma, è leggermente superiore alla tensione nominale.
  • Tensione sotto carico: è il valore di tensione ai capi della batteria completamente efficiente quando viene applicato un carico pari ad almeno un 50% della sua capacità massima. In inglese closed-circuit voltage.
  • Tensione media: ovvero la tensione misurata sotto carico nel punto centrale della fase di scarica.
  • Tensione finale: detta anche di cut-off. Corrisponde alla tensione rilevata alla fine del processo di scarica. Da questo punto in poi la batteria può considerarsi inutilizzabile.
  • Tensione di ricarica: è un parametro utilizzato solo per alcune tipologie di batterie che vanno caricate a tensione costante. Esso stabilisce il valore massimo applicabile di tensione durante la fase di carica. Di solito è superiore di un 10 – 15% alla tensione a vuoto.

Una volta definito il glossario per i vari tipi di tensione, sarà interessante osservare una curva di scarica generica. Essa è visualizzabile in figura 4.

batteria  curva di scarica
Figura 4: Curva di scarica generica per un accumulatore

La curva di scarica è ottenuta caricando una batteria al 100% della sua efficienza con un carico resistivo di valore costante e rilevando (a temperatura esterna sempre costante) tutti i valori di tensione nel tempo. E questo fino alla sua scarica completa. Logica vorrebbe che un comportamento ideale fosse simile a quello mostrato con colore verde nella figura 4. In realtà, come sempre, le cose sono un pochino più complesse e ci troveremo nelle condizioni mostrate dalle curve di colore rosso e blu, abbastanza difformi dal modello ideale! Come se non bastasse, la curva di colore rosso, ottenuta con carico pari al 100% della capacità della batteria è ancora più lontana dal modello ideale rispetto all’altra di colore blu. Quest’ultima è stata ottenuta prelevando dalla batteria appena il 50% della sua capacità massima. Un occhio esperto direbbe che i comportamenti reali sono “affetti” da una componente resistiva non lineare e non avrebbe torto, come vedremo meglio in seguito. Osservando l’andamento della curva, possiamo tranquillamente dedurre che l’aumento del carico influisce in modo peggiorativo anche sui tempi necessari per raggiungere la tensione finale.

Occorre comunque fare una precisazione di carattere generale: la rispondenza più o meno simile ad un comportamento ideale risente della tecnologia in cui la stessa batteria è costruita. Naturalmente altri fattori concorrono: l’invecchiamento, le modalità di ricarica ed il tipo d’impiego (a carico costante, a carico variabile, in tampone, ecc.). Un altro parametro importante che caratterizza un accumulatore è la sua capacità oraria di erogazione corrente.

Vediamo di capire meglio di cosa si tratta. Osservando i dati di targa di un accumulatore, oltre alla sua tensione nominale, abbiamo sicuramente visto un altro valore numerico, espresso in A/h (ampere per ora). Esso viene definito come la capacità di una batteria e spesso è anche indicato, nella letteratura tecnica, con la lettera “C”.

Ad esempio, se il nostro accumulatore ha una capacità di 10 A/h non vuol dire (come molti pensano…) che, nell’ambito di un’ora, potrà erogare una corrente di 10 A. Una situazione di questo tipo porterebbe, in breve, alla dipartita dell’accumulatore stesso. In realtà questo parametro va “diluito” su un arco temporale maggiore, di solito 10 ore (ma in Giappone ed in America del nord di solito sono 8 mentre, in taluni casi, viene considerato un tempo di ben 20 ore per le batterie al piombo-acido).

Quindi, tanto per fare un esempio, un accumulatore da 50 A/h potrà erogare 5 A per 10 ore ma non 50 A per una singola ora. Se caricato in tal modo esso potrà al massimo funzionare per 10 – 15 minuti. Allo scadere di questo tempo, la tensione ai suoi capi sarà pari a quella finale o giù di lì. Tanto per fare un esempio, un accumulatore da 6 A/h potrà fornire:

  • 6 A in 10- 15 minuti circa (dato di targa, non consigliabile l’applicazione!)
  • 600 mA in 10 ore
  • 300 mA in 20 ore
  • 120 mA in 2 giorni e 2 ore

A questo punto sarebbe intuitivo pensare che lo stesso accumulatore dell’esempio potrebbe, a rigor di logica, fornire anche 12 A in 30 minuti ma, come sempre, le cose sono un pochino più complesse. In effetti alcune tecnologie di batterie sopportano bene correnti eccedenti la loro capacità oraria. Per altre invece non è così e, in questi casi, si deve ritenere la capacità oraria come valore di corrente erogato non superabile, se non per tempi brevissimi.

Parliamo ora dell’efficienza di una batteria, un dato che purtroppo non è mai divulgato abbastanza dai costruttori. Torniamo all’esempio precedente, ovvero quello di una batteria da 6 A/h. L’erogazione di energia di questo accumulatore campione, che si misura sempre in W/h (Watt per ora) corrisponderebbe, nel caso di una tensione nominale di 12 V, a 72 W/h.

Supponiamo ora di scaricare completamente questo ipotetico accumulatore, ovvero di aver raggiunto e superato la sua tensione finale. Per un noto principio di fisica, l’energia necessaria per la sua ricarica dovrà essere almeno pari a quella da lui fornita. Ovvero dovremmo caricarlo con una corrente che, lungi dall’essere la sua C (6 A/h), dovrà esserne una frazione, ad esempio un decimo. Si dice in questo caso che l’accumulatore è ricaricato a C/10 (un decimo della sua capacità oraria).

Attenzione, stiamo definendo un altro concetto “universale” per tutti i tipi di batterie: la ricarica deve sempre avvenire con una corrente inferiore alla capacità oraria di targa. E questo per ragioni chimico-elettrolitiche che non staremo a spiegare in queste pagine. Tornando al nostro esempio, i 72 W erogati in un’ora possono “rientrare” nella batteria solo con una corrente pari, ad esempio, a 1/10 della sua capacità oraria nominale, ovvero 600 mA.

A questo punto, sempre considerando un rendimento di ricarica teorico pari al 100%, occorrerà un tempo 10 volte maggiore per riportare la batteria al suo massimo grado di efficienza. Ovvero, la nostra unità dovrà rimanere in carica per 600 minuti. Proviamo ora a tabellare questo concetto, variando ogni volta la corrente di ricarica e trovando il tempo corrispondente:

  • Ricarica con C/5: 300 minuti
  • Ricarica con C/10: 600 minuti
  • Ricarica con C/20: 1200 minuti

Naturalmente un rendimento teorico del 100% è del tutto improbabile poiché, anche i processi chimici più perfezionati, disperdono energia in calore, gas, ecc. Per cui sarà naturale aspettarci un aumento dei tempi visti in tabella. Questo “spread” varia in funzione della tecnologia della batteria, del suo invecchiamento e da altri fattori fisici quale, ad esempio, la temperatura ambiente.

Modello elettrico equivalente di un accumulatore

Dopo averne definito i parametri principali, entriamo ancor più nel dettaglio e vediamo quale potrebbe essere un modello “discreto” che descriva la funzionalità di un accumulatore generico utilizzando componenti di uso comune. Esso è visibile in figura 5.

accumulatore al piombo
Figura 5: Modello funzionale di un accumulatore generico

Premetto che questo modello non è esattamente quello previsto dai testi ufficiali, nel presentarlo ho preferito “personalizzare” alcuni aspetti in modo da rendere i concetti più semplici. Vediamo in dettaglio la funzione dei componenti discreti che lo costituiscono:

  • Vb = tensione a vuoto dell’accumulatore
  • Rs = resistenza serie dell’accumulatore
  • Rp = resistenza parallelo
  • Cp = capacità associata
  • Ls = impedenza tipica dell’accumulatore

Vediamo di capire meglio la funzione di tali componenti. Rs è forse il parametro più importante di tutti poiché decide la corrente massima che può essere erogata dalla batteria. Infatti, anche mettendo in cortocircuito i morsetti d’uscita dell’accumulatore, la corrente ai capi sarà necessariamente limitata da questo componente.

Ricordate la non linearità della curva di scarica? Bene, la colpa è di Rs che tende ad aumentare, tra l’altro in modo non lineare, con il procedere della scarica. Potremmo anche dire che un accumulatore completamente scarico possiede una Rs altissima La Rp è invece responsabile dell’auto-scarica della batteria. Infatti, pur non prelevando correnti ai morsetti, dopo un certo tempo, ci ritroveremo con un batteria inutilizzabile poiché scarica. Questo comportamento dipende da perdite interne ed è come sempre influenzato dalla temperatura.

Per compensare gli effetti della Rp spesso si ricorre alla cosiddetta carica di mantenimento, ovvero una corrente piccola ma continua che serve solo a compensare le perdite introdotte dalla Rp  Anche Ls è un fattore importante. Infatti, le correnti alternate che circolano all’interno dell’accumulatore, non trovano solo una componente resistiva (Rs) che si oppone al loro passaggio. In realtà, vi è anche una non trascurabile componente induttiva, che cresce con la frequenza in modo (guarda caso…) non lineare. La Ls è spesso valutata come un indice di qualità della batteria stessa, nel senso che un suo valore elevato è indice di un invecchiamento e di una funzionalità ormai compromessa. Un metodo di test, utilizzato anche dai costruttori, è mostrato in figura 6.

impedenza batterie
Figura 6: Metodo per determinare l’impedenza di una batteria

Torniamo adesso al modello di accumulatore mostrato nella figura 5. La presenza di Ls è il motivo per cui ogni apparecchiatura alimentata a batteria deve sempre avere dei condensatori di medio-alta capacità in parallelo alla batteria stessa (i cosiddetti condensatori di “shunt”). La loro presenza ha il compito di annullare la Ls che, viceversa, impedirebbe la perfetta circolazione delle correnti in AC. La capacità Cp può invece essere trascurata nella maggior parte delle applicazioni.

Tipologie di accumulatori comunemente in uso

Anche in questo paragrafo è necessario fare una piccola premessa: la nostra chiacchierata sarà per forza di cose non esaustiva. Infatti, esistono svariate tecnologie costruttive, per svariate esigenze e costi diversi, ma purtroppo solo una piccola parte di esse sarà dettagliata in questo capitolo. Ci limiteremo a considerare i modelli più comuni, rimandando il lettore che vuole approfondire verso testi più specializzati. Abbiamo fin qui accennato ai parametri principali degli accumulatori ma, per una valutazione comparativa più dettagliata dobbiamo necessariamente approfondire alcuni aspetti. Citiamoli:

  • L’impiego
  • Il rapporto peso/potenza
  • Il tipo di ricarica
  • Il costo
  • La necessità di manutenzione periodica

L’ordine in cui sono state enunciate queste caratteristiche non è casuale, al primo posto è doveroso specificare quale applicazione/macchina/carico dovrà utilizzare questa fonte di energia ricaricabile. Tanto per capire bene questo aspetto facciamo un esempio. Tutti conoscono le normali batterie per autoveicolo che, a parte qualche non eclatante innovazione tecnologica, sono le stesse da 100 anni. Cosa si chiede ad una simile batteria?

  • Una forte erogazione di corrente, pari al 100-120% della sua capacità, per qualche secondo. E quindi una bassa Rs (fase di avviamento del motore a scoppio).
  • Una ricarica mai costante e spesso “brutale”, dipendente dalle circostanze di marcia del veicolo questa condizione è temporalmente la più lunga e può durare ore. Ovvero robustezza e ricarica poco critica (fase di circolazione del veicolo).
  • Un piccolo “aiuto” di corrente all’alternatore durante fasi critiche, ad esempio quando accendiamo lunotto termico ed autoradio insieme con le luci già attivate (fase di extra-corrente momentanea).
  • Manutenzione ordinaria abbastanza frequente. L’utente è preparato in tal senso.
  • Costi relativamente bassi.
  • Rendimento di ricarica trascurabile.
  • Curva di scarica non necessariamente ottimale (nella maggior parte della sua vita operativa si trova nella fase di carica).
  • Funzionamento a temperature molto basse e molto alte.

Alla stessa batteria invece non chiederemo mai:

  • Portabilità manuale (questa è sostenuta dal veicolo) e quindi non dovrà avere un eccezionale rapporto peso/potenza.
  • Cicli di carica-scarica in numero limitato  poiché, nel funzionamento normale, non dovrebbe mai scaricarsi completamente.

Vediamo adesso cosa possiamo chiedere alla batteria di un cellulare:

  • Un’erogazione di corrente modesta ma costante.
  • Una ricarica veloce ma controllata con sistemi sofisticati.
  • Una curva di scarica molto vicina a quella reale, viste le tensioni basse in gioco.
  • Un rapporto peso/potenza ai massimi livelli poiché il cellulare deve essere piccolo e leggero.
  • Manutenzione del tutto assente o gestita dal telefonino stesso.
  • Costi relativamente alti perché le tecnologie non sono ancora troppo affermate.
  • Rendimento di ricarica trascurabile (date le basse potenze richieste).
  • Funzionamento a temperature moderatamente basse e mai troppo alte.

Come si vedrà, mi perdoni il lettore se ho scelto due casi al limite per evidenti ragioni di chiarezza, le caratteristiche dei due tipi sono quasi all’opposto. Può fare eccezione alle evidenti diversità il solo rendimento di ricarica, simile per entrambi i tipi. In mezzo a queste due estremità vi sono prodotti tecnologici intermedi che rispondono ad esigenze specifiche. La tabella 1 ci aiuterà a fare una prima classificazione dei principali tipi di batteria ricaricabile in ragione di alcuni criteri.

caratteristiche batterie ricaricabili
tabella 1: Caratteristiche dei principali tipi di batterie ricaricabili

Potrebbe essere interessante approfondire il discorso della ricarica ed i problemi ad essa correlati poiché questo aspetto è quello che più riguarda la parte elettronica della nostra chiacchierata. Anche in questo caso ricorreremo ad una tabella, in particolare la tabella 2.

tab2
tabella 2: Caratteristiche del processo di ricarica di vari tipi di accumulatori

Ricarica a corrente costante

La cosiddetta ricarica a corrente costante presuppone che la tensione ai capi della batteria, durante tutto il processo, possa variare. Ovviamente la corrente di ricarica sarà mantenuta costante e controllata. Il valore di questa corrente può essere, in taluni casi di “ricarica rapida”, anche C/2. Una corrente così elevata impone che, una volta che l’accumulatore sia stato ricaricato, vi sia una forte riduzione dei valori della corrente stessa. E ciò per aumentare il rendimento del dispositivo ed evitare, nel contempo, di danneggiare la batteria. Con quest’ultima completamente carica, si fornirà così una corrente, definita di mantenimento, che ha il solo scopo di compensare l’auto-scarica della batteria e, di solito, è mantenuta su valori intorno a C/25.

Vi sono comunque caricabatterie economici che non prevedono questa dualità di fase e preferiscono mantenere un valore di corrente di ricarica intermedio, di solito C/20, che, a patto di aumentare a dismisura i tempi di ricarica, va bene per entrambe le fasi. Un altro aspetto non trascurabile di questa modalità è che la tensione di batteria, intesa a piena efficienza, deve essere inferiore alla tensione di ricarica. Quest’ultima dovrebbe assumere un valore minimo pari a circa 1,2 – 1,25 volte la tensione di batteria. Questo fattore è importante se, come ad esempio a bordo di autoveicoli, possiamo disporre di tensioni che possono essere più basse della tensione di batteria (intesa come serie di singoli elementi). In questi casi occorre innalzare la tensione di ricarica ricorrendo a convertitori/duplicatori che diminuiranno senz’altro il rendimento complessivo del sistema. In figura 7 troviamo lo schema a blocchi di un generico caricabatterie a corrente costante.

caricabatteria a corrente costante
Figura 7: Caricabatterie a corrente costante (schema di principio)

Nella stessa figura troviamo anche un profilo di carica in funzione della tensione di batteria (curva rossa),  la stessa corrente di carica (curva verde) ed il loro andamento nel tempo. La morfologia di questo profilo è simile a quella di una batteria al Nichel-Cadmio che, come abbiamo già specificato, richiede una carica a corrente costante. Si noterà, nel punto chiamato FC, un brusco innalzamento della tensione di batteria. Questo comportamento, tipico della tecnologia in oggetto, è spesso sfruttato da caricabatterie “intelligenti” per capire a che punto deve cominciare la carica di mantenimento che, lo ricordiamo, è effettuata con correnti decisamente più contenute. Il caricabatterie schematizzato in figura 7 non prevede però questa opzione.

Esaminiamolo adesso con più attenzione.

I primi due stadi sono abbastanza banali e non ci soffermeremo. Il regolatore di corrente vero e proprio è l’elemento incaricato di fornire un regime costante anche a fronte di variazioni della tensione di rete e (soprattutto) della tensione di batteria. Il regolatore, per fare ciò, deve leggere continuamente la corrente erogata e, a questo scopo, vi è un resistore (RS nello schema a blocchi, spesso definito resistore di shunt) che si incaricherà di convertire la corrente che vi scorre in una tensione ai suoi capi. Il valore di questo resistore è critico poiché, essendo attraversato da tutta la corrente di ricarica, dissiperà una certa energia. E quest’ultima sarà irrimediabilmente persa. Il primo impulso progettuale sarebbe quello di scegliere un valore molto contenuto ma, nel fare ciò, troveremo due problemi.

Il primo è che qualunque tensione di misura è affetta da rumore di varia natura, non eliminabile del tutto. Quindi, avendo un segnale utile di pochi millivolt, esso sarà fatalmente sovrapposto alla tensione di rumore che, in queste condizioni, sarà significativamente disturbante rendendo tutto il sistema poco stabile se non addirittura aleatorio.

L’altro problema è rilevabile dallo schema a blocchi, osservando la sezione del comparatore. Quest’ultimo per funzionare ha bisogno di una tensione di riferimento che, confrontandosi con la tensione ai capi di RS, lo fa propendere a mantenere la sua uscita coerente con la richiesta o meno di corrente. In altri termini, il gruppo composto da sorgente di riferimento e comparatore, è il “cuore” del nostro sistema di regolazione. Per questo motivo la tensione di riferimento deve essere dello stesso ordine della tensione ai capi di RS. Purtroppo tutti i generatori di tensione di riferimento hanno, per motivi costruttivi, una tensione che non è mai inferiore a poche centinaia di millivolt (di solito compresa fra 1 e 1,25 V). Facciamo un esempio. Supponiamo di scegliere una tensione di riferimento di 1 V su una corrente di carica pari a 4 A, valore del tutto plausibile. Il nostro resistore di misura dovrà avere un valore:

R = 1 / 4 ovvero 0,25 Ohm

Che, tradotto in termini di dissipazione, significherà:

W = 1 x 4 ovvero 4 W

Quindi, per far funzionare il nostro caricabatterie, dovremmo mandare in fumo (si fa per dire…) ben 4 W. Alla faccia del risparmio energetico! Con una tensione di riferimento pari a 0,25 V avremmo invece avuto una dissipazione di solo 1 W. Esistono comunque sistemi non dissipativi per sopperire al problema della resistenza di shunt. Vi sono ad esempio dei sensori ad effetto HALL che riducono la dissipazione a pochi milliwatt anche con correnti nell’ordine dei 100 A. Naturalmente costo e difficoltà crescono notevolmente rispetto ad una semplice resistenza. Un altro componente da commentare è il diodo di blocco. La funzione di questo componente è molto semplice: impedire il passaggio di corrente dalla batteria all’alimentatore nel caso venisse meno l’energia elettrica della rete AC. Anche in questo caso occorrerà essere accorti nel bilancio energetico poiché, sempre supponendo una corrente pari a 4 A, un diodo ordinario dissiperà ben 2,8 W (supponendo una Vf pari a 0,7 V).

Scegliendo un diodo SCHOTTKY, che come è noto possiede una Vf ridotta (intorno a 0,3 V) potremmo ridurre del 50% circa tale dissipazione. Nel caso di correnti elevate è possibile usare per questa funzione più diodi posti in parallelo oppure opportuni elementi attivi (MOSFET) che, in caso di inversione della corrente, si portano in interdizione istantaneamente. Sul dimensionamento dei componenti sarà necessario fare qualche ulteriore riflessione. Anche in questo può tornare utile un esempio. Supponiamo di dover ricaricare un pacco batterie composto da 9 batterie al Nichel Cadmio, poste in serie, che, singolarmente, hanno una tensione nominale pari a 1,2 V con una corrente di 2 A. La tensione nominale totale sarà data dal valore singolo moltiplicato per il numero degli elementi. Nel nostro caso sarà quindi pari a 10,8 V. Dovendo effettuare una carica abbastanza rapida scegliamo una corrente pari a C/4, ovvero 500 mA. Supponiamo ora di disporre di una tensione di riferimento pari a 1,25 V, valore molto usuale nei regolatori monolitici a 3 pins. Il nostro diodo di blocco sarà invece uno SCHOTTKY con Vf pari a 0,35 V (calcolata alla corrente di carica, ovvero 0,5 A). Ora dobbiamo tenere conto delle perdite in tensione introdotte dall’elemento regolatore vero e proprio che, nel nostro schema a blocchi, ha la funzione di stabilizzare la corrente d’uscita. Se scegliamo un normale elemento, quindi non LDO (low drop out, ovvero a bassa caduta di tensione fra input ed output), dovremmo calcolare almeno 2,5 V di caduta fra ingresso (volt ingresso) ed uscita (ovvero il voltaggio di ricarica).

Ora abbiamo tutti i dati e possiamo calcolare la nostra tensione d’ingresso:

Volt ingresso = 2,5 + 1,25 + 0,35 + (10,8 x 1,2) = 17,1 V (arrotondati in eccesso)

Tenendo anche conto della tensione che cadrà sui diodi raddrizzatori, il trasformatore non dovrà erogare meno di 13 VAC. Le perdite in calore saranno pari a:

W perduti = (2,5 + 1,25 + 0,35) x 0,5 = 2,05 W

E questo senza tenere conto del rendimento del trasformatore nonché della potenza dissipata sui diodi raddrizzatori. Proviamo ora a calcolare il rendimento dell’assieme:

Rendimento =  Potenza immessa nelle batterie / Potenza richiesta

Nel nostro caso la potenza richiesta sarà pari alla somma dei Watt perduti con la potenza effettivamente fornita per la ricarica delle batterie:

Potenza richiesta = 2,05 + (0,5 x 10,8 x 1,2) = 8,53 W

Da cui:

Rendimento = (0,5 x 10,8 x 1,2) / 8,53 = 76% circa

Per elevare questo valore non proprio esaltante avremmo potuto:

  • Ridurre la tensione di riferimento
  • Utilizzare un regolatore LDO, quindi avere una caduta di tensione non superiore a 1,2 V
  • Utilizzare un regolatore tipo switching isolato

Per correnti di ricarica superiori a 1,5 A, la terza soluzione è di fatto uno standard ormai imposto e consolidato.  Mi perdonerà il lettore se ho voluto giocare un pochino con le cifre, la qual cosa è stata forse un po’ noiosa ma utile a capire come anche un circuito apparentemente semplice richieda un minimo di attenzione in fase progettuale.

Ricarica a tensione costante

Come dice lo stesso titolo del capitolo, un accumulatore ricaricato a tensione costante permette alla corrente di ricarica di fluttuare mantenendo, nel contempo, una tensione sui morsetti stabile e definita a priori. E’ questa la classica modalità di ricarica per le batterie al piombo-acido, che, come vedremo, saranno il “target” della nostra applicazione: un sistema di monitoraggio remoto. Attualmente le batterie al piombo-acido, nella loro versione ad elettrolita liquido, sono il mezzo più diffuso ed economico per il backup energetico degli impianti civili-industriali ad energia rinnovabile.

Sebbene il trend commerciale tenda ad imporre tecnologie più sofisticate (Lithio, ecc.), il grosso degli impianti è tutt’ora alimentato dagli economici, robusti e pesanti accumulatori al piombo. Cominciamo subito con il dire che la sola ricarica a tensione costante si usa solo per elementi a bassa capacità, di solito nella versione ad elettrolita gelatinoso. Nella fase iniziale, infatti, le correnti possono essere notevoli se la batteria è completamente scarica o poco meno. In questa prima fase si preferisce fare affidamento su un limitatore di corrente per non provocare guasti sull’alimentatore di ricarica. Tale condizione implica un iniziale processo di carica a corrente costante, se la batteria è nelle condizioni di richiedere una grossa esigenza di corrente. Nelle batterie al piombo-acido non è peraltro necessaria una grossa precisione nei riguardi della tensione di ricarica mentre, nel caso delle batterie al Lithio, occorre essere precisi nell’ambito del decimo di Volt (0,1 V). In figura 8 troviamo uno schema di principio che ci aiuterà a capire meglio quanto detto.

caricabatterie a tensione costante
Figura 8: Caricabatterie a tensione costante con limitazione della corrente (schema di principio)

Come nel caso della carica a corrente costante, è previsto un resistore che permetta di acquisire il valore della corrente di ricarica. Anche in questo caso valgono le stesse considerazioni: più basso ne sarà il valore e meno potenza sarà dissipata a vuoto. Essendo l’uscita del nostro caricabatteria separata dal suo carico a mezzo del diodo di blocco, la misura della tensione di ricarica sarà effettuata direttamente ai capi della batteria stessa. In questo modo ci “affrancheremo” dall’errore introdotto dalla Vf della giunzione che, fra l’altro, varia con la temperatura. L’alta impedenza del comparatore di tensione impedirà la scarica della batteria sul pin di feedback in caso di caduta della tensione di rete. Si noti la presenza di due tensioni di riferimento: una per la corrente e l’altra per la tensione. Diamo ora un’occhiata al grafico. Esso è diviso idealmente in due zone: la prima definita a “corrente costante”, la seconda invece a “tensione costante” (vedi asse ascisse). Nella zona a corrente costante vediamo la tensione salire gradualmente fino al punto VK.  Da questo punto in poi, la corrente non è più limitata (soglia IS) e la tensione sarà fornita in modo costante. Si noti come dal punto Imax la corrente tenda sempre a scendere, fino a raggiungere il cosiddetto valore di mantenimento (nel grafico definita Iman).
Le batterie al piombo-acido
Visto che l’applicazione che presenteremo è dedicata essenzialmente al controllo delle batterie al piombo-acido, cerchiamo di capire meglio le caratteristiche di questa tecnologia costruttiva. Intanto sarà opportuno dare un’occhiata alla tabella 3 per avere un’idea dei loro pregi e difetti.

vantaggi/svantaggi batteria piombo-acido
tabella 3: Vantaggi e svantaggi delle batterie al piombo-acido

 Un concetto importante va subito chiarito: il valore di tensione di una singola cella è molto basso e non va bene per la stragrande maggioranza delle applicazioni. In altri termini, occorre sempre mettere più elementi in serie. In questo modo la corrente erogata da ogni singola cella sarà identica ma – e qui si inserisce l’utilità della nostra applicazione – la tensione è soggetta a leggere variazioni. La tensione nominale di una cella al piombo-acido, a batteria completamente efficiente e senza carico applicato, è compresa fra 2,05 e 2,125 Volt. Questa leggera differenza dipende dalla concentrazione chimica dell’elettrolita e dalla temperatura. In particolare, diminuendo la temperatura e la concentrazione, la tensione tende a sua volta a diminuire. L’industria, nei suoi più o meno riusciti tentativi di standardizzazione, propone batterie a 3 celle (6 volt di targa ), a 6 celle 12 Volt di targa, le più diffuse) ed anche a 12 celle (24 Volt di targa). Più rare sono le versioni a 2 celle (4 volt) ed a 24 celle (48 Volt). Una cella è considerata completamente scarica quando la tensione ai suoi capi, con il carico applicato, è scesa sotto 1,75 Volt. In particolari condizioni di temperatura o con carichi molto gravosi, è però accettata una tensione finale anche di 1,1 Volt. La tabella 4 ci aiuterà a capire meglio la dipendenza dalla temperatura della tensione nominale di una singola cella.

Valori di tensione nominale in funzione della temperatura
tabella 4:  Valori di tensione nominale in funzione della temperatura

Abbiamo già accennato che la ricarica delle batterie al piombo-acido è fatta a tensione costante. E’ questo il metodo più semplice e comunemente usato. Tuttavia non è il solo. Prima di prendere in considerazione le varie tecniche di ricarica, occorrerà fare qualche considerazione di ordine elettro-chimico. La soluzione elettrolitica frapposta fra gli elettrodi è solitamente una soluzione di acqua distillata con acido solforico (H2SO4), quest’ultimo presente in minima parte. Quando la tensione ai capi di una cella raggiunge il fatidico valore di 2,39 Volt, l’elettrolita liquido della cella comincia a rilasciare gas idrogenati che, salendo in superficie sotto forma di piccole bollicine, rilasciano il loro contenuto di gas nell’ambiente.

Il motivo per cui, quando ricarichiamo le batterie di un autoveicolo, dobbiamo svitare i tappi di chiusura delle celle (se vi sono) è proprio questo! Ovvero evitare grosse concentrazioni di gas all’interno dei singoli elementi. Infatti, come già accennato, si tratta di gas molto infiammabili e quindi pericolosi, anche in modeste quantità. Nel caso di batterie ermetiche si assisterà ad un rigonfiamento delle stesse dovuto all’aumento della pressione interna. In ogni caso, non è consigliabile procedere ad una ricarica superando il fatidico valore di 2,39 Volt per singola cella (in inglese: gassing voltage). Vi è però un complicazione: la temperatura. Infatti, consultando la tabella 5, possiamo vedere come questo valore non è assoluto ma dipenda fortemente dalla temperatura. Trascuriamo, per semplicità, ulteriori dipendenze dalla concentrazione di (H2SO4) nell’elettrolita liquido.

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 tabella 5: Variazioni della tensione critica di cella in funzione della temperatura

Osservando la tabella 5, appare evidente che fra due temperature affatto impossibili alle nostre latitudini, ovvero 40 gradi e 0 gradi, vi è una differenza di ben 0,21 Volt. Questo valore potrebbe causarci problemi visto che, per diminuire i tempi di carica, è opportuno procedere con una tensione (costante) il più possibile vicina al valore di 2,39 Volt. Supponiamo, a titolo di esempio, che il nostro alimentatore di ricarica fosse tarato una volta per tutte al valore di 2,39 Volt. D’estate correremmo il rischio di superare il gassing voltage mentre, d’inverno, la carica sarebbe sicuramente poco efficiente  Inoltre, tutti i processi di ricarica prevedono un riscaldamento dell’elettrolita cosicché, a peggiorare le cose, troviamo anche un fenomeno che possiamo definire di reazione positiva! Altro parametro da prendere in considerazione è l’auto-scarica della batteria, ovvero la perdita di carica senza l’utilizzo della stessa.

La scarica è influenzata principalmente da 2 fattori: l’invecchiamento e la temperatura. Esistono però particolari tecnologie costruttive (p.e. elettrodi trattati con calcio) che permettono di ridurre tali fenomeni. La figura 9 chiarirà meglio il concetto esposto.

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Figura 9: Influenza della temperatura, dell’invecchiamento e della tecnologia costruttiva sull’auto-scarica

Dopo queste premesse possiamo affrontare in dettaglio le varie tecniche di ricarica che dovranno necessariamente tenere conto delle problematiche accennate.
Ricarica delle batterie al piombo-acido
Le metodologie di ricarica devono considerare i seguenti fattori:

  • Tipo di esercizio della batteria, ovvero le condizioni di funzionamento
  • Tempi di ricarica
  • Tecnologia costruttiva
  • Costo,  complessità e tecnologia degli alimentatori di ricarica
  • Invecchiamento della batteria
  • Parametri fisici locali (principalmente la temperatura)
  • Difficoltà di manutenzione ordinaria

Esaminiamo quindi le metodologie più usate, cominciando da quella meno comune: la ricarica a corrente costante fissa. Questo metodo, seppure economico e affidabile, non è molto usato per batterie al piombo-acido. Il motivo è semplice: le caratteristiche stesse dell’accumulatore, obbligherebbero ad usare correnti iniziali troppo basse e quindi, in caso di elementi molto scarichi, vi sarebbe un inaccettabile aumento dei tempi di ricarica. Solo per elementi ermetici (detti anche a “gel”) con capacità inferiore a 8 Ah è a volte usata questa tecnica. Anche nei laboratori fisico-chimici, ove è necessario misurare con precisione la corrente immessa in fase di carica, è possibile incontrare questa metodica. Una variante alla tecnica appena vista è la cosiddetta carica  a corrente differenziata, essa è mostrata in figura 10.

batteria - ricarica a corrente differenziata
Figura 10: Metodo di ricarica a corrente differenziata

Con tale sistema possiamo fornire correnti elevate all’inizio e poi, nell’esempio vi sono solo 3 livelli, decrescere a bruschi scatti per arrivare, alla fine, a fornire una debole corrente di mantenimento che impedisce l’auto-scarica della batteria. Possiamo scendere da un livello all’altro con dei tempi fissi oppure misurando la tensione di batteria che, col procedere della carica, deve necessariamente salire. Questo sistema va bene per impianti stazionari, ovvero con batterie fisse che non devono mai scaricarsi meno del 40% della loro capacità, ed è usato nel campo delle energie alternative. Tra l’altro, il costo degli alimentatori di ricarica non è elevatissimo ed il loro funzionamento è semplice. Il metodo di ricarica a tensione costante, usatissimo, è stato già descritto precedentemente e quindi non ci soffermeremo ulteriormente. Un parametro importante da stabilire potrebbe essere la tensione di ricarica da applicare nelle varie condizioni. Essa dovrà essere costante dopo la fase iniziale che, di solito, è sostenuta invece a corrente costante. Vi sono fondamentalmente 3 sistemi:

  • A tensione fissa con margine di temperatura a 50 gradi
  • A tensione controllata dalla temperatura ambiente
  • A tensione controllata dalla temperatura di batteria

Il primo sistema, il più economico e semplice, prevede che la tensione sia fissata a priori su un valore pari a 2,30 volt per cella. Osservando la tabella 5, si noterà come questo valore corrisponde alla temperatura di 50 gradi, oltre la quale, a parità di tensione applicata, si corre il rischio di entrare nel gassing voltage. In effetti, in sistemi stazionari, è difficile si raggiungano temperature superiori ma, d’inverno, con temperature che sfiorano 0 gradi, questa tensione potrebbe essere insufficiente a garantire una pur modesta corrente di mantenimento. Quindi, questa tipologia di ricarica può essere applicata a sistemi situati in interni (abitazioni, capannoni, ecc.) dove le temperature non scendono mai sotto i 10 gradi. Inoltre, prevedendo correnti di ricarica comunque modeste, non è adatto per ricariche veloci. La tabella 6 ci aiuterà a scegliere un’appropriata tensione di ricarica in ragione della tensione di targa dell’accumulatore.

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 tabella 6: Tensioni fisse di ricarica per elementi singoli o in serie

La seconda ipotesi prevede invece un controllo continuo della temperatura ambiente in modo da fornire una tensione d’uscita sempre al di sotto del gassing voltage. Si ammette, semplificando, che la differenza fra temperatura ambiente e temperatura dell’elettrolita sia nota e costante. In realtà le cose non stanno esattamente così poiché l’elettrolita, con il procedere della carica, tende a scaldarsi e ad aumentare in tal modo la differenza di gradi con l’ambiente esterno. Per risolvere questo problema si ricorre a sonde di temperatura a contatto con il corpo della batteria o direttamente immerse nell’elettrolita. Ne consegue che il terzo sistema è quello più valido ed efficace, inopinabile se le batterie sono situate in zone a forte escursione climatica.

La disponibilità di circuiti ad alta integrazione ha introdotto una modalità che può essere considerata una variante migliorata dell’ultima esaminata: la carica a tensione costante con alte correnti iniziali. In questo caso, la batteria è inizialmente caricata con una corrente stabilizzata ad un valore tale che la tensione media di cella non superi il fatidico valore di 2,39 Volt. Dopo questa fase, influenzata comunque dalla lettura della temperatura, ne segue un’altra a tensione costante. Il passaggio da una fase all’atra è deciso dalla tensione di batteria.

Questo sistema è ottimo per batterie che devono ricaricarsi rapidamente o con carica residua molto bassa (inferiore a 20%). Un altro metodo di carica, molto usato per batterie destinate alla trazione elettrica (carrelli, autoveicoli, ecc.), prevede che la corrente sia fornita in modo impulsivo. Da studi effettuati sembra che una ricarica discontinua conferisca alla batteria più longevità. Fra un impulso di carica ed un altro, viene fatta la lettura della tensione di batteria per un tempo prefissato. Il valore ricavato, tramite una logica programmata, “deciderà” la larghezza dell’impulso (vedi figura 11).

Com’è intuitivo, a forti correnti iniziali corrisponderanno impulsi molto larghi che, nel corso della carica, andranno sempre più restringendosi. La carica di mantenimento sarà fatta con dei veri e propri “spillini” destinati ad immettere una quantità molto bassa di corrente.

batteria - ricarica a corrente impulsiva
Figura 11: Metodo di ricarica a corrente impulsiva

Questa metodologia, che si va sempre più affermando, permette l’uso di alimentatori con rendimenti molto alti. La qual cosa è perfettamente in linea con le attuali tendenze di risparmio energetico.

Bibliografia

Handbook of batteries di D. Linden e T. B. Reddy (McGraw-Hill)
Battery Charge Circuit Encyclopedia (autori vari)
Charge Equalization for Series Connected Batteries String, articolo di N. H. Kutnut, M. Divan (membri emeriti della IEEE)

Redazione Fare Elettronica